Cosa è il gaslighting: il racconto di Gaia che chiede aiuto e proprio dalle donne viene isolata
Anche se non siamo abituati a sentirne parlare, il gaslighting è l’abuso più subdolo e devastante messo in atto da abili manipolatori per far soccombere l’altro fino a minarne l’autostima e portare la vittima a sottomettersi alla propria volontà. Si può arrivare ad una forte depressione che può persino sfociare nel suicidio. Che la vittima sia un fidanzato/a, un amico/a, un familiare poco importa. Facciamo un esempio banale. Immaginiamo una coppia in cui uno dei partner rinfaccia all’altro che, durante una conversazione, le parole usate l’hanno profondamente ferito e amareggiato.
L’altra persona dirà di non ricordare affatto quella discussione, che se la sta inventando e che mai avrebbe detto certe cose, che non è nel suo stile agire così. Anche se il manipolatore può essere smentito, ha appena piantato nella mente del suo partner il seme del dubbio.
Il seme del dubbio metterà radici e, a poco a poco, senza rendersene conto, senza averne consapevolezza, la vittima può arrivare a credere di aver davvero perso la capacità di distinguere realtà e immaginazione.
Il motivo per cui viene perpetrato questo tipo di abuso è semplicemente sottomettere l’altro, fargli del male o raggiungere un obiettivo preciso, come nel film Gaslighting. Quello che è lampante è che questo comportamento è un chiaro esempio di relazione tossica, in cui uno dei due membri della coppia viene sopraffatto da un’enorme insicurezza, dubbi costanti su ciò che crede vero e una dipendenza assoluta dall’opinione degli altri.
E ora parliamo di Gaia che ha trovato conforto in una associazione e in una panchina rossa.
Mi metto nei suoi panni, faccio mie le sue parole e voi fate vostre le sue emozioni. Non è così difficile!
“Sono co-vittima di violenza perché tra le tattiche utilizzate dal mio ex, vi è stato un gioco di plurimi tradimenti: fidanzate, amanti, “amiche” e “amici” conniventi. Anni di violenza psicologica e poi fisica. Sentirsi senza più dignità fino a quando sono esplosa. Esplosa per mia fortuna, non implosa. Questo mi ha fatto ragionare, mi ha permesso di mettere tutto a fuoco come per scattare la fotografia della mia vita, subita e non vissuta. Nella sfortuna sono stata fortunata, sono stata seguita dal centro antiviolenza Erinna di Viterbo, ho raccontato, ho denunciato. Si ho denunciato ed ho incontrato un maresciallo e un comandante dei carabinieri che mi hanno incoraggiata anche dopo, quando, dopo la prima richiesta di archiviazione di un pubblico ministero donna, volevo fermarmi.
Perché a tutto c’è un limite e alla fine, proprio da un P.M. donna che avrebbe potuto immedesimarsi e comprendere sono stata giudicata e mi sono sentita ancora una volta “usata”. In modo diverso certo ma pur sempre usata. Le mie parole non erano valse a nulla, il mio massacro interiore nessuno riusciva a percepirlo, la fatica di gridare e condannare, il coraggio di denunciare non veniva visto come ennesima violenza che comportava una ferita emotiva in grado di estendersi sempre più. Senza risanarsi, senza punti di sutura, senza rimarginazione. Lesioni aperte a far scorrere lacrime imprigionate nel mio buio interiore.
Così, svegliandomi dal torpore, correndo contro il tempo, ho cercato le “altre”: tutte colte, femministe, esperte di diritti umani, di violenza alle donne. Quelle che chiamo le co-vittime. Se solo parlassero! Invece ho ricevuto cornette sbattute in faccia, minacce, isolamento, trattata come se io fossi una stalker. La mia è una storia torbida, lo so, ma è mia, solo mia, non certo loro. Quelle che odiano lui odiano anche me. Le “amiche” mi disprezzano nello stesso modo. La Gip ha affermato che la pur riconosciuta denigrazione non è reato. Perché ero maggiorenne, quindi capace di intendere e di volere. Ho scelto io di farmi denigrare. Eppure sul sito istituzionale dei carabinieri si parla del gaslighting che annulla di fatto ogni possibilità di scelta autonoma. Se le altre, le tante altre co-vittime (una suicida), parlassero: ma non parlano. Credo che riconoscere l’ambiguità, prima conseguenza della violenza, sia tappa indispensabile della lotta alla violenza stessa.
Il paradosso è che io, donna, sono stata creduta dagli uomini e non dalle donne. Le une contro le altre. Tacciono in una forma di omertà deleteria per tutti e questo provoca una sorta di contagio. Di questa faccia della violenza, della perversa ipocrisia nei rapporti fra donne, della violenza fra di loro donne co-vittime non si discute mai. E nessuno potrebbe immaginare.
Io allora chiedo che mi si dia voce, fatemi esistere laddove nella vita delle “altre” io non esisto, affinché esse stesse guardandomi possano guardarsi dentro. A loro chiedo solo un favore ma so che questa richiesta rimarrà inascoltata: chiedo dignità e giustizia. Ma per averle occorre parlare. Parlate, fatevi coraggio l’un l’altra. Sarà un grido d’aiuto collettivo che non può cadere nel vuoto. Ecco, chiedo solo questo. Di parlare e non tacere più. Mai più.”
di Stefania Lastoria