Il Pakistan e la sua ossessione per la pelle bianca
Viviamo in un mondo in cui sempre più, il colore della pelle, sembra dover parlare di noi, di chi siamo o forse di chi avremmo voluto essere.
“Apparire” come la società ci impone è divenuto un messaggio sempre più persuasivo e incalzante rispetto invece alla necessità di “essere” semplicemente se stessi ed accettarsi, impresa ardua se è la nostra stessa terra, la nostra gente, la nostra cultura a non accettare ciò che siamo.
E allora parliamo di questa realtà, venuta alla ribalta attraverso i social network, quando, la modella pachistana Zara Abid ha postato su Instagram alcune sue foto scattate per il salone di bellezza Nabila. Le foto la ritraevano con una tonalità di pelle molto più scura della sua. La modella sembrava avesse improvvisamente origini africane.
L’uso di cosmetici blackface per scurire la pelle ed operare così un’indebita appropriazione culturale della tradizione africana può essere considerato un atto razzista. In Pakistan, un paese di gente bruna, tutto ciò è stato tollerato.
Considerando però che decine di migliaia di follower della modella hanno contestato sia lei che il salone di bellezza per questa trasfigurazione, forse qualcosa sta cambiando. Per molti questo episodio corrisponde non solo a rinnegare il colore naturale della propria pelle ma anche ad offendere chi ha realmente origini africane. In altre parole è come se il colore scuro fosse presentato come qualcosa che può essere scimmiottato, trasformato e utilizzato a proprio piacimento con finalità diverse, in pose studiate ma di sicuro effetto sociale negativo.
Si è trattato anche di uno sgarbo nei confronti delle tante donne di pelle scura del Pakistan, modelle comprese, che potevano essere ritratte semplicemente con il loro vero colore della pelle, senza sovrastrutture, senza finzioni, senza stravolgimenti. Siamo dunque all’idolatria postcoloniale: il messaggio che arriva è che quella pelle scura è così terribile nella sua forma originale e reale da non poter essere accettata, tanto che persino la sua raffigurazione deve implicare una messa in scena. Una sorta di spettacolo che ha come prezzo la propria identità.
I pachistani che si vedono bruni idolatrano la pelle chiara e in quanto popolo si ritengono più belli degli africani. Essere di qualche tono più chiari è inteso come essere di qualche tono più vicini ai padroni coloniali di un tempo, e quindi di diversi toni migliori di quelli che sono più scuri.
Questo genere di foto dice ad ogni ragazza non bianca che l’unica pelle scura accettabile è quella che può essere “lavata via”.
Leggetelo bene questo concetto perché, se compreso, fa rabbrividire.
Ecco assorbito il razzismo dei colonizzatori, secondo i quali tutte le razze più scure della loro erano inferiori.
È davvero assurdo apprendere che proprio come i pachistani, anche gli indiani, hanno problemi ad accettare di non avere una qualche pura eredità ariana (e dunque bianca). La maggior parte, se non tutti, vantano una qualche discendenza dagli arabi conquistatori, qualunque cosa pur di essere collegati a ciò che considerano “migliore” e dunque non essere semplicemente asiatici meridionali, bruni, scuri o neri.
Le conseguenze sono state disastrose e hanno inculcato in milioni di donne che vivono nella regione l’idea di dover in qualche modo trasformare la loro realtà asiatico-meridionale, scura e color bronzo, nella fantasia di candido biancore così iconizzata dalla cultura. Per essere bella, una ragazza deve farsi bianca, come le viene detto dalla cultura, dalle convenzioni e dalla famiglia.
Diventare bianche in Pakistan richiede fatica e comporta molti rischi.
Per anni i saloni di bellezza hanno offerto trattamenti che usano sostanze chimiche di ogni genere per sbiancare la pelle scura. Peggio ancora, esiste una grande varietà di creme velenose traboccanti di mercurio pronte a essere consumate da ragazze che sperano di ottenere una buona proposta di matrimonio. Le creme sono adoperate con entusiasmo per “aprire” la carnagione senza curarsi minimamente del veleno che penetra nella pelle o dei tumori, delle malattie e dell’avvelenamento che possono provocare, se utilizzate in alte concentrazioni.
Il terrore che spinge all’uso di queste creme è che una ragazza scura vale quanto una ragazza morta. Meglio essere più chiare e sposate che restare di colore, che nel crudele lessico razzista del paese significa anche brutte.
Qualche speranza giunge da un luogo piuttosto improbabile. All’inizio dell’anno Zartaj Gul, la ministra pachistana per il cambiamento climatico, ha dichiarato che le “creme per schiarire la pelle sono contrarie ai diritti umani delle donne”. La ministra ha convocato una conferenza stampa in cui ha annunciato che il suo ministero avrebbe imposto una stretta alle aziende che producono creme sbiancanti contenenti quantità pericolose di mercurio. Solo tre delle 57 aziende esaminate dal ministero sono risultate in regola con le linee guida sulla salute e la sicurezza.
Naturalmente ci vorrà molto più di questo per liberarsi dell’ossessione per la pelle bianca.
Tutto ciò rivela come siano pochi i pachistani che mettono in relazione i pregiudizi della società riguardo il colore della pelle e la storia di inferiorità accumulata in due secoli di dominio coloniale. Ed è un’ignoranza che costa cara, anche perché impedisce alle donne di avere una sana immagine di se stesse che celebri la loro realtà, il loro vissuto emotivo, il loro essere donne fiere e combattive.
È giunto il momento per le donne e le ragazze pachistane di iniziare una loro campagna, un boicottaggio organizzato dei prodotti e delle aziende che usano solo modelle dalla pelle chiara per pubblicizzare i loro prodotti. Essendo loro ad occuparsi in prevalenza della spesa, le donne possiedono un enorme potere in quanto consumatrici. Nei social network hanno uno strumento che consente loro di entrare in contatto le une con le altre. Assieme possono servirsene per guidare un boicottaggio collettivo dei canali televisivi, delle aziende e dei fornitori di servizi (come i saloni di bellezza) che promuovono trattamenti sbiancanti, decolorazioni e ogni altro metodo per far sembrare bianche le donne a rischio della loro stessa salute.
I pachistani non sono bianchi, sono bruni, o scuri. Questa è l’unica realtà e riguarda uomini e donne. Invece di cercare di sfuggirle, di disprezzarsi e sentirsi inferiori a casa propria, è ora che tutti la accettino. Bruno è bello e nero è bello. A non essere accettabile è il costante tentativo di trasformare le loro origini per adattarli a un qualche ideale importato e degradante di bellezza.
di Stefania Lastoria