Messina Denaro e il tritolo per Di Matteo

Il Covid, il lockdown, le zone rosse, arancioni e gialle, il caos che si genera ad arte, i negazionisti e gli anti mascherina, tutto serve per allontanare lo sguardo dalla mafia e dai suoi super latitanti, primo fra tutti Matteo Messina Denaro. L’ultimo boss di una generazione di boss catturati e messi in sicurezza al 41bis. Ma le cronache giudiziarie di questi giorni, portano alla ribalta Messina Denaro, anche se nessun giornale ne scrive e nessuna televisione ne fa un servizio. Ma a settembre Alfredo Geraci, “fresco di arresto e di pentimento dopo qualche settimana, torna alla carica su un tema scabroso, non gradito ai media, accuratamente evitato dagli opinionisti antimafia che vanno per la maggiore: quello dell’attentato da mettere a segno, con 150 chili di tritolo, ai danni di Nino Di Matteo” così scrive Saverio Lodato su Antimafia duemila.

Di questo attentato, ne avevano parlato alcuni boss mafiosi pentiti, tra cui Vito Galatolo, raccontando ai magistrati che indagavano, di una espressa richiesta del super latitante Matteo Messina Denaro ai capi di Cosa Nostra e risaliva al 2012. Una condanna a tutti gli effetti, per Di Matteo, con tanto di motivazioni ufficiali della mafia, da non prevedere ripensamenti. Le motivazioni del boss erano chiare, il pm Di Matteo, “si era spinto troppo oltre” con le sue imdagini. Indagini riferite alla “Trattativa Stato-mafia”, quella che vedeva partecipare elementi esterni alla mafia stessa. Una indagine che Di Matteo con alcuni suoi colleghi, porta avanti da anni, per questo da sempre sotto l’occhio del ciclone costruito ad hoc contro di lui,  per frenare o insabbiare “cose indicibili” come ebbe a scrivere il consigliere di Napolitano. La “Trattativa Stato-mafia” culminata a Palermo con un processo di primo grado e relative condanne. Il pentito Galatolo si dilungò, con i magistrati, in particolari che chiarivano la vicenda, come l’esplosivo era stato acquistato in Calabria, in quale quartiere di Palermo era stato nascosto, in che modo Di Matteo era stato seguito dai sicari della mafia alla ricerca del modo migliore per mettere a segno l’attentato. Il messaggero della richiesta di Messina Denaro fu Girolamo Biondin, boss di S. Lorenzo che informo anche i boss di Cosa Nostra, aggiungendo che lo stesso Messina Denaro avrebbe messo a disposizione un artificiere di sua fiducia non conosciuto dai boss. Tale particolare sollevò perplessità tra i boss in riunione sui reali mandanti di un simile  progetto di strage. Infine nel 2014, Galatolo chiese di incontrare Di Matteo al quale riferì il complotto per ucciderlo. La procura di Caltanissetta apri un inchiesta, scattarono le indagini, le ricerche dell’esplosivo che però non fu trovato. Ma un altro pentito, Francesco Chiarello, racconto che la mafia lo aveva spostato in un luogo più sicuro. Vanno anche ricordate le esternazioni di Totò Riina nel carcere di Opera, quando confidò nell’ora d’aria, ad un altro detenuto che Di Matteo doveva fare “la fine del tonno”.

In queste settimane, Alfredo Geraci, interrogato dai pm in occasione di una inchiesta sulle richieste del pizzo ai commercianti a Palermo, ha confermato le parole di Galatolo sull’attentato a Di Matteo. Ha riferito anche, che il summit al quale parteciparono altri boss, si svolse al secondo piano di un appartamento a Ballarò, di proprietà della sorella di suo suocero, che proprio lui aveva messo a disposizione dei congiurati. Così scrive Saverio Lodato su Antimafia duemila. Proprio questa parte dell’interrogatorio di Geraci è stata secretata. Indubbiamente, riaprire le indagini alla luce di questi nuovi elementi, sarebbe auspicabile, anche perché cercare il tritolo potrebbe portare a trovare Matteo Messina Denaro, il super latitante da quasi trenta anni.

di Claudio Caldarelli

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