Il giorno che scoprimmo di essere la Terra Promessa

Il PD, per bocca del suo nuovo segretario, apre allo Ius soli, il diritto di  tutti i bambini nati nel nostro Paese di avere la cittadinanza  italiana anche se nati da genitori stranieri. Ritorna così più che mai attuale la questione migranti, un tema che l’emergenza coronavirus aveva relegato in un recesso della memoria. Così come è finito per diventare un ricordo sbiadito il primo impatto vero con la migrazione, quando 20mila albanesi sbarcarono nel porto di Bari l’8 agosto del 1991. Trent’anni sono passati da allora, ma le immagini di quello sbarco hanno segnato nell’immaginario collettivo l’inizio delle migrazioni di massa nel nostro Paese. L’Italia, paese d’emigrazione, cominciò ad essere terra per immigrati. L’Italia, che aveva sempre sognato l’America, si scoprì quel giorno “Terra promessa”. L’Italia, col suo popolo di santi, poeti e navigatori, si trovò del tutto impreparata a quella nuova realtà.

All’alba dell’ 8 agosto del 1991, quando tutto il Paese era in vacanza, un elicottero della Guardia di Finanza avvistò al largo di Bari il mercantile albanese Vlora, che era stato respinto dalle autorità portuali di Brindisi e puntava, lento ma sicuro, verso il capoluogo pugliese.

Un militare ventenne in servizio di leva presso la capitaneria del porto di Bari così racconta quella mattina:

«Ci svegliarono alle 4 di notte, ci diedero una mascherina di stoffa, dei guanti e un fucile scarico, pesante come il piombo. -Arrivano dei profughi dall’Albania, dirottati da Brindisi. Saranno un migliaio Voi state lì, sul molo, fate quello che vi dicono- . Andai in divisa ad aspettare sul molo con altri sprovveduti come me e qualche ufficiale. Ecco l’alba e poi la mattina, il tempo non passava mai. Faceva caldo. Improvvisamente intorno alle 10 si vide questa nave, da lontano, nel mare calmo. Lenta. Avanzava. Deforme. Non aveva contorni. E più si avvicinava più diventava chiaro che quei contorni erano fatti di persone ammassate. La precedeva un brusìo indefinito, che cresceva e diventava sempre più forte, migliaia di urla disperate, di richieste di aiuto. Persone ovunque: a bordo, sul parapetto,sulla prua, sulla poppa, sul pennone, sulla cabina di pilotaggio. Una bolgia umana, una fiumana di gente che iniziò a buttarsi in mare e a lasciarsi scivolare dalle cime fino a terra. E un odore mai sentito prima, acre, intenso, che mi prese lo stomaco. Io ero lì, inebetito ed incredulo, davanti a quella marea di disperati che non finiva mai, che continuava a scendere da quell’inferno di paura, incoscienza e speranza.»

La nave Vlora che attraccò col suo carico di anime al molo di Levante era un cargo mercantile adibito al trasporto di canna da zucchero da Cuba verso l’Abania. Il giorno prima era ferma al porto albanese di Durazzo.  La storia quel giorno fece improvviso un balzo in avanti: una marea umana confluì a Durazzo da tutta l’Albania: uno spettacolo inconsueto per un paese dove erano limitati persino gli spostamenti interni; il porto era inaspettatamente aperto, il molo e il cargo vennero presi d’assalto da una folla di giovani che vedeva in quello scafo, in quella rotta che attraversa l’Adriatico, l’alternativa al proprio destino. Ora che la dittatura era finita e il partito comunista albanese era ormai agli sgoccioli, quella nave da zucchero, la nave dolce,  sembrava una promessa di libertà. E una promessa di benessere: le nostre trasmissioni televisive avevano alimentato per anni negli albanesi il sogno italiano. La Vlora prese il largo con l’idea di realizzare quelle promesse, quel sogno.

Al suo arrivo al molo di Bari ad accoglierla poche decine di poliziotti e il Sindaco  Enrico Dalfino. Racconterà in seguito la vicenda sua moglie:

«Andò subito al porto, prima ancora che la Vlora sbarcasse. A Bari non c’era nessuno del mondo istituzionale, erano tutti in vacanza, il prefetto, il comandante della polizia municipale, persino il vescovo era fuori. Quando uscì di casa però non immaginava quello a cui stava andando incontro. Dopo qualche ora mi telefonò dicendomi che c’era una marea di disperati, assetati, disidratati, e aveva una voce così commossa che non riusciva a terminare le frasi. Non dimenticherò mai l’espressione che aveva quando tornò a casa, alle 3 del mattino dopo. “Sono persone” – ripeteva – “persone disperate. Non possono essere rispedite indietro, noi siamo la loro ultima speranza.»

Per fronteggiare l’emergenza, la prefettura diede ordine di chiudere i profughi nello Stadio della Vittoria, il primo CIE della storia d’Italia, zone franche dove finiscono persone che non hanno commesso reati e l’unica colpa che hanno è di avere un permesso scaduto.

Il Sindaco Dalfino non accettava che lo stadio, dove furono stipati gli uomini albanesi (perché per fortuna le donne e i bambini lui era riuscito a sistemarli in centri di accoglienza), fosse trasformato in un lager, con le porte chiuse da enormi pile di conteiner e una sommaria distribuzione di acqua e viveri tramite gru ed elicotteri.

Anche don Tonino Bello, allora Vescovo della Diocesi di Molfetta, che giunse prima al porto e poi allo stadio di Bari, rimase indignato e sconvolto  sulle condizioni in cui versavano i migranti. Non trovò un medico o un responsabile della protezione civile. Ritornò a Molfetta e scrisse al quotidiano Avvenire: “ Le persone  non possono essere trattate come bestie, prive di assistenza, lasciate nel tanfo delle feci, mantenute a dieta con i panini lanciati a distanza, come allo zoo, senza il minimo di decenza in quel carnaio greve di vomiti e di sudore ; forse come credenti avremmo dovuto levare più forte la nostra condanna ed esprimere con maggiore vigore la nostra indignazione. Sono sconfitti e umiliati gli albanesi; sconfitti e umiliati anche noi, perché costretti a sperimentare ancora una volta come la nostra civiltà, che nella sbornia di retorica si proclama multirazziale, multietnica e multireligiosa, non sa ancora dare quelle accoglienze che hanno sapore di umanità…”

Tre giorni dopo nello stadio scoppiò la guerriglia. Furono tre giorni violenti dove rimasero feriti 40 poliziotti e un numero imprecisato di manifestanti. I testimoni raccontarono scene da Apocalisse. Le immagini dello «stadio lager» fecero il giro del mondo, sollevando polemiche e proteste. Nel frattempo, la maggioranza degli albanesi fu rimpatriata a bordo di aerei C-130: un’operazione inutile, perché quasi tutti gli espulsi tornarono in Italia negli anni successivi. Fu la Chiesa a farsene carico, distribuendoli nelle parrocchie presso famiglie disposte a dare alla domanda di accogliere i migranti l’unica risposta ancora oggi possibile: Sono persone, persone disperate. Non possono essere rispedite indietro, noi siamo la loro ultima speranza.

di Daniela Baroncini

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