Naufragio di Cutro: una sigla per chi non ha un nome
KR46M0 era un bambino di pochi mesi di vita. Mare nostrum, mare in tempesta le cui onde hanno fagocitato l’imbarcazione carica all’inverosimile di vite umane. È la Calabria ionica questa volta il luogo in cui la morte ha deciso di portarsi via vite umane. Mare nostrum, la cui forza delle onde nella notte tra il 25 e 26 febbraio ha travolto un barcone della disperazione distruggendolo fino ad ingoiarne il suo carico umano, restituendo tra i flutti di un mare forza quattro il fasciame, gli assi, le valige, gli abiti e i corpi di chi non c’è la fatta a resistere alla forza della natura.
I resti dell’imbarcazione, che le onde hanno spinto sulla spiaggia crotonese, sono ora ostaggio della risacca che l’ingoia e li risputa con la cadenza dettata dalle onde. La stessa sorte per i corpi senza vita dei molti disperati che non ce l’hanno fatta. Disperati che non hanno realizzato il sogno di una vita migliore di quella che vivevano nei loro paesi di origine, paesi martoriati da guerre e fame.
La tragedia si è consumata ad un passo dalle spiagge che sognavano di raggiungere. La conta dei morti è sempre triste, e non conta il numero di essi per darne l’importanza, la perdita anche di una sola vita umana è un fatto grave.
Nella camera ardente allestita per accogliere le vittime di questo tragico naufragio spiccano le bare bianche dei bambini. Una su tutte con una sigla, non un nome, è quella con la scritta KR46M0 fatta con un pennarello, è allineata a tante altre bare bianche e non, disposte ordinatamente e quasi tutte siglate, poche con un nome. KR identifica il posto dove è stato ritrovato il corpo, Crotone, 46 è il numero progressivo del ritrovamento, M identifica il sesso, un maschio, 0 è l’età, KR46M0 è il corpicino di un bambino di pochi mesi. Si era appena affacciato al mondo e il destino lo ha tragicamente consegnato alla morte.
La tragedia e il dolore per quanto è avvenuto dovrebbe far cambiare i protocolli per il salvataggio e la politica non deve speculare su quanto è avvenuto, destra e sinistra hanno entrambi le loro responsabilità in materia di immigrazione, hanno governato e hanno deciso quando era il loro turno. Nel 1997 c’era il governo Prodi, di centrosinistra, quel governo scelse un operazione militare, l’operazione Alba in terra albanese e blocco navale, per fermare i profughi in fuga dal caos della guerra civile. Ebbene quel governo autorizzo un’operazione tecnicamente chiamata “harassement” in cui una corvetta italiana speronò un’imbarcazione con sopra 120 profughi affondandola, la maggior parte di loro morì affogata.
Questi morti meritano rispetto. Poteva uscire la Guardia Costiera? Perché non è andata in soccorso? Perché la Guardia di Finanza invece si? Le informazioni di Frontex (organizzazione europea che coordina le operazioni marittime) erano esatte? E se si come sono state veicolate? Interrogativi a cui in molti dovranno rispondere, governo, opposizioni, istituzioni. Una risposta le famiglie e i parenti delle vittime devono averla.
Le parole dette dal Ministro degli Interni Piantedosi, un tecnico prestato alla politica: “da disperato non partirei perché sono stato educato anche alla responsabilità di non chiedermi sempre io cosa devo aspettarmi dal luogo e dal Paese in cui vivo, ma anche quello che posso dare io al Paese in cui vivo per il riscatto dello stesso”, sono parole che lasciano di stucco. Parole che forse sono uscite di getto, perchè vogliamo credere che una persona intelligente come Piantedosi mai le avrebbe pronunciate. La disperazione però, come ha detto bene Roberto Vecchioni, nella trasmissione “Di Martedì” condotta da Giovanni Floris, è una condizione psicologica che va oltre il limite della consapevolezza e del raziocinio, essa è lo stato d’animo di chi non ha più alcuna speranza e non trova soluzioni e per questo costretto, da dura necessità osa di tutto, anche affrontare un viaggio con un alto rischo di morire.
Ecco quella barca c’era un carico di disperati, e molti di loro sono morti affogati in mare, nel mare nostrum.
Livia Scatolini