Un anno dopo Mahsa Amini, l’Iran non smette di urlare: «Donna, vita e libertà»

Mahsa Amini, ragazza di 22 anni fu uccisa esattamente un anno fa, una morte in custodia per non aver correttamente indossato il “velo”, visto che qualche ciocca di capelli usciva furtivamente dal cosiddetto hijab.

Era il 16 settembre 2022.

Minacce alla famiglia, arresti preventivi e una vittima ci sono state alla vigilia dell’anniversario della sua morte.

Certo, le proteste di massa in grado di portare in piazza decine di migliaia di persone, sono finite da mesi, schiacchiate dal pugno di ferro del regime ma anche dal pubblico dei social che ha trovato nuove battaglie da promuovere a colpi di click.

Eppure, l’eco di ciò che accadde un anno fa, continua a far sentire la sua voce, difficile dimenticare, d’obbligo ricordare, segno di giusta insurrezione continuare a propagare l’onda d’urto per l’Iran.

In modo diverso, certo, rispetto all’esordio, la rivolta ha perso il carattere plateale per diventare ostinata resistenza quotidiana.

«Quelle delle ragazze che escono senza hijab, nonostante molte vengano fermate, insultate o malmenate. Quella dei lavoratori che, nei diversi settori, ciclicamente, incrociano le braccia», spiega Neguin Bank, dissidente, da quasi trent’anni in esilio in Italia. Proprio le manifestazioni – ovviamente in patria – sono l’incubo dell’84enne ayatollah Ali Khamanei e del presidente falco, Ebrahim Raisi, che, da settimane, hanno intensificato la repressione per impedirle.

Impedirle a tutti i costi e fare in modo che la notizia non si espanda nel resto del mondo.

E noi siamo qui per diffondere questo grido incessante di libertà.

Da metà luglio, le squadre della “Gasht-e-Ershad”, la polizia morale, sono tornate a pattugliare per verificare il “corretto” impiego dell’hijab, insieme alle onnipresenti telecamere per il riconoscimento facciale. Dalla fine del mese scorso, i parenti degli attivisti sono stati pesantemente minacciati e alcune decine sono state arrestate. Il 5 settembre, è finito in cella lo zio di Mahsa, Sali Aeli. L’intera famiglia della giovane ha subito pesanti minacce per annullare la commemorazione religiosa al cimitero di Saqqez prevista proprio per il 16 settembre di quest’anno. Il loro avvocato, Saleh Nikbakht – che fin dal principio ha contestato la versione ufficiale della morte della giovane, attribuita dalle autorità ad un problema cardiaco – è in prigione con l’accusa di «propaganda contro il sistema»: rischia da uno e due anni di carcere.

La persecuzione si è accanita con particolare forza sulla stampa e sulle università e così ad esempio, le giornaliste Negin Bagheri e Elnaz Mohammadi, del quotidiano digitale Ham Mihan, sono state condannate a tre anni per «cospirazione», mentre la reporter critica Nazila Maroufian è tornata in prigione per la seconda volta in un anno. La connessione di molti siti e media indipendenti va a singhiozzo da giorni, con veri e propri black-out a Zahedan, nella provincia sud-orientale del Sistan-Baluchistan, una delle zone più calde, dove tuttora si registrano cortei dopo la protesta del venerdì. Artisti, cantanti, figure pubbliche sono sotto stretta “osservazione”. Gli atenei, “colpevoli” di avere offerto rifugio e supporto ai dimostranti, hanno subito una vera e propria vessazione, con decine di docenti licenziati. Perfino il famoso esperto di intelligenza artificiale Ali Sharifi Zarchi ha perso la cattedra alla prestigiosa università Sharif di Teheran.

I 22mila dimostranti amnistiati hanno ricevuto un avvertimento chiaro da uno dei vertici del potere giudiziario, Sadegh Rahimi: qualunque iniziativa sarà punita, stavolta, con un castigo doppio. Hamed Bagheri, attivista curdo, è stato ucciso dalle forze di sicurezza a una trentina di chilometri da Teheran per aver incitato le persone a manifestare.

Eppure questo non ha impedito che in vari quartieri della capitale siano tornate le grida di protesta. L’ostinazione con cui il regime sta perseguendo il dissenso, reale o presunto, non fa che confermare, però, quanto potente ancora risuoni per l’Iran il grido «Zan, Zendegi, Azadi» ovvero «Donna, vita, libertà». La sua eco va ben oltre la quantità di capelli che una testa femminile è autorizzata a mostrare.

In queste tre parole sono sintetizzati tutti gli abusi che gli iraniani hanno sopportato in 44 anni di Repubblica islamica. Le donne e la loro lotta contro l’hijab sono la punta avanzata di un movimento ampio, in cui si trovano le minoranze etniche e religiose – tradizionalmente discriminate –, i giovani affamati di libertà e le famiglie impoverite dalla cronica crisi economica, innescata dal ripristino delle sanzioni Usa dopo il ritiro unilaterale dall’accordo sul nucleare da parte dell’amministrazione Trump.

In cinque anni, la moneta locale ha perso il 66 per cento del suo valore, l’inflazione galoppa, i prodotti di importazione scarseggiano nei bazar. La recessione strangola i salariati e la classe medio-bassa mentre la morsa si allenta progressivamente man mano che ci si avvicina ai vertici del regime. Proprio nella capacità di coniugare le istanze sociali con la richiesta di diritti, risiede la forza della rivolta, che procede silenziosa, in attesa di una nuova fiammata. L’Iran è una polveriera.

Nel frattempo, “Donna, vita e libertà” resta il grido muto di ogni cittadina che cammina per strada senza hijab. E sono tante, molte più di quanto si possa immaginare, la rabbia e la ribellione non sono più un fuoco che cova sotto la cenere ma si apprestano a diventare un vulcano in eruzione che può distruggere tutto fino, si spera, ad annientare un regime violento, coercitivo, brutale e prevaricatore.

Stefania Lastoria

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