Dove il Messico si chiama Roma

Cos’è il cinema nell’epoca dei social, delle piattaforme digitali, dei pc, dei tablet, degli smartphone e delle smart tv? Roma, il Leone d’Oro all’ultima mostra cinematografica di Venezia, del regista messicano Alfonso Cuarón, ce lo dice in una maniera da vertigine degli orizzonti. Visibile in tutto il mondo sulla piattaforma Netflix, è uscito nelle normali sale cinematografiche italiane, distribuito dalla Cineteca di Bologna, come evento speciale, solo nei giorni 3, 4 e 5 dicembre scorso. Ossia, l’evento speciale è diventato la proiezione nella sala fisica, con poltrone e grande schermo, mentre la normalità è la sala web, i piccoli e piccolissimi schermi e i divani, o i letti di casa. Questo è solo il primo dei rovesciamenti d’orizzonte.

Il secondo è che Cuarón, su questa linea di confine mobile tra classicità originaria e futuro digitale, realizza un film in bianco e nero che è una summa sontuosa, rigogliosa di tutta la sapienza sedimentata dalla storia del cinema in termini di inquadrature, sequenze, movimenti di macchina, grana fotografica, ritmo di montaggio. Lo stesso bianco e nero è virato, saturato a sfumature graduate di bianco e grigio che diventano immediatamente tonalità emotive, tipiche del racconto epico. Un film, dunque, che percorrerà i piccoli schermi, i display dei devices, dei dispositivi connessi attorno a tutta sfera terrestre, ma che solo il grande schermo può farci veramente assorbire, percepire epidermicamente e intellettivamente, in maniera integrale. È come se il cinema, congedandosi definitivamente dalla sua vecchia pelle, o pellicola, per digitalizzarsi sia nella fase delle riprese, sia in quella della visione, ribadisse la sua unicità ed elevatezza stilistica, per non farsi ingoiare, ruminare, ridurre a omogeneizzato dall’immane gelatina blob-elettronica in infinita espansione sulla blog-sfera. Non a caso nei cinema, come il Farnese, in Piazza Campo de’ Fiori a Roma, cui è stata consentita la programmazione oltre i tre giorni dell’evento, il pubblico continua a rispondere, affollando a ogni proiezione la sala, con lunghe file esterne per comprare i biglietti.

Roma è un barrio, un quartiere, nel quale è nato il regista Cuarón, abitato dalla media borghesia di Città del Messico, così come a Buenos Aires c’è Palermo, barrio altrettanto bene, dove è nato anche il grande scrittore Jorge Luis Borges. Il film inizia con inquadratura fissa sopra le mattonelle del cortile interno della casa di due piani, nella quale vive la signora Sofia, con sua madre, suo marito il dottor Antonio, quattro figli, due domestiche indie e un cane. Sulle mattonelle inquadrate cominciano a scorrere i titoli di testa e dell’acqua saponata. Il velo d’acqua sul pavimento si accende di un riflesso di luce, di un’apertura rettangolare di cielo sopra il cortile. Mentre continuano a scorrere i titoli e i getti d’acqua, il rettangolo di cielo riflesso è attraversato da un areo. Questa immagine è importante per due motivi. Il primo è che essa coincide – ma esattamente rovesciata – con l’inquadratura finale di tutto il film. La seconda è che si tratta di una citazione, di un omaggio a un altro regista messicano, Carlos Salces. Questi nel 1997 gira un corto di dieci minuti, dal titolo En el espejo del cielo, Nello specchio del cielo, con protagonista un bambino messicano indio, un niño pobrecito, povero, che vede e insegue un aereo riflesso in una pozza d’acqua. Un corto che fa il giro del mondo, tanto che Italia alcune sue sequenze sono utilizzate da Unicredit per lo spot televisivo di una sua campagna pubblicitaria. Cuarón la cita per riportarla alla sua origine, alla base del racconto, al livello della terra sofferta.

Subito dopo i titoli di testa, il flusso d’acqua s’interrompe, rifluisce in un foro di scarico sul pavimento. Appare l’india Cleo che chiude il rubinetto e avvolge il tubo di gomma che vi è attaccato. È lei la niña pobrecita, la serva di casa protagonista assoluta della narrazione. Il suo cielo è solo un riflesso, un espejo, uno specchio del pavimento del cortile pieno di cacche del cane che il dottor Antonio ha proibito di far uscire dal cancello di acceso. Tanto che ogni volta che lui entra nel cortile per parcheggiare la sua enorme Galaxy, Cleo o l’altra serva il cane devono trattenerlo per il collare, impedirgli assolutamente di mettere il muso fuori. Così come sempre chiusi in gabbia sono los pajaros, gli uccellini, tra il cortile e l’ingresso della casa, che ogni tanto, par accident, il regista inquadra, mentre sfaccendano le due domestiche.

Il film è ambientato tra il 1970 e il 1972. E il periodo tra la fine dell’infanzia e l’inizio dell’adolescenza di Cuarón, nato il 28 novembre del 1961. Gli anni in cui riceve in regalo la sua prima telecamera, e dunque gli anni della sua origine, la sua destinazione nel cinema. In casa sua c’era una tata india, proprio come Cleo, e proprio come in tutte le altre case del Barrio Roma. E questo film è anche una testimonianza che attraversa lo schermo, oltre il tempo, per queste ragazze e il loro dono d’affetto alla sua generazione. Nel raccontare la storia di una famiglia, di un quartiere, di una città, Cuarón non solo privilegia il femminile, ma l’origine stessa dell’intera nazione Mexico. Origine india, precolombiana, sterminata, sottomessa, schiavizzata dalla invasione-occupazione spagnola seguita allo sbarco di Cristoforo Colombo. Bisogna andare al celebre Museo Antropologico di Città del Messico la domenica, ossia quando l’ingresso è gratuito e migliaia di famiglie con figli di ogni età accorrono a visitarlo, ad affollarlo. Ammirano le vestigia di una civiltà che gli avi degli stessi visitatori hanno sterminato, cancellato dalla faccia della terra. Molti sono meticci, con sangue indio e spagnolo nelle vene. Sterminati e sterminatori abitano e lacerano la stessa persona. Si tocca con mano lo sconcerto nello spiegare ai figli le immagini dell’arte e dello spirito di quella civiltà, che ancora vive violentemente in molti di loro, quali discendenti indigeni e distruttori esogeni.

Cleo è infatti la serva non meticcia ma india pura, di una famiglia bianca borghese d’origine spagnola. In una scena sul terrazzo sta stendendo il bucato ancora gocciolante. Attorno a lei, due dei piccoli giocano ai gringos, ai cow-boy – anch’essi razziatori di terre, sterminatori di altri indios –, che sparano con le pistole. Pure lei si stende lunga, fingendosi morta. Sospira al bambino che la chiama: “Non posso risponderti, sono morta. Sai che no è male essere morti”. L’inquadratura panoramica verso l’alto. L’acqua dei calzini stesi sgocciola copiosa. Altri terrazzi, altri cani in gabbia abbaiano, altre tate indie fanno il bucato, donando cura, attenzione, amore a quei figli non loro. Dalle mattonelle del cortile ai fili del terrazzo, l’acqua sale, cresce nelle scene come un vero e proprio sistema d’immagine del femminile. Contrapposta al fuoco del maschile, come qui alle armi da fuoco finte dei bambini.

Quando Cleo va a cercare Fermín, il suo fidanzato fuggito, attraversa un barrio di vaste pozzanghere e fango, mentre un cannone spara in aria –  tra una nuvola di fumo – un uomo acrobata. Anche questa scena è una citazione da un altro grande regista, l’argentino Fernando Birri. Il film è Los inundados, Gli inondati, del 1961. Mentre Cleo attraversa le pozze, camminando su passarelle di legno, si sente un altoparlante che chiede l’appoggio e il voto del popolo per cambiare la situazione del popolo inondato e infangato, esattamente come nel film di Birri. La vera realtà indigena asservita, fuori dalle case borghesi del Barrio Roma, è in quella melma, dove i bambini si aggirano come extraterrestri smarriti. Quando però Cleo trova Fermín, in un campo d’addestramento paramilitare, l’acqua non c’è più, è tutto arido, polveroso, infiammato dal fuoco di un fanatismo tanto isterico quanto istrionesco.

Il film mostra – in un’impressionante scena di massa, magistralmente composta, mossa e ripresa con una panoramica leggermente dall’alto – un episodio realmente accaduto. Si tratta del massacro di studenti avvenuto a Città del Messico il 10 giugno 1971 e che va sotto il nome di El Halconazo. Uno dei motivi di quella mobilitazione studentesca era anche ricordare la strage operata dalla polizia e dall’esercito contro gli universitari il 2 ottobre 1968 in Piazza delle Tre Culture. Nel giugno del ’71 a sparare, però, furono paramilitari e tiratori scelti addestrati, proprio allo scopo di sostituire la polizia. Nella tensione caotica, acustica e visiva di questa scena, assistiamo a un’altra cruciale opposizione tra acqua-donna e maschio-fuoco. La rottura delle acque del parto e una pistola puntata a distanza ravvicinata.

Certamente la scena più esemplarmente drammatica è quella che si svolge sulla spiaggia di Tuxplan, vicino Veracruz, a nord di Mexico City. Ancora acqua, ancora donne, ancora salvezza e disperazione. Attraverso un lungo, movimentato carrello in piano sequenza, che dalla spiaggia entra nel mare, il regista riesce caricare la scena di un significato simbolico, esistenziale così profondo che nessun altro tipo di ripresa sarebbe stato in grado di restituire, di donarci. L’immagine successiva, con Sofia e i suoi figli, sopra Cleo, ad abbracciarla, ci dà veramente il senso di un’intera nazione che poggia su questo ancestrale fondamento femminile, ventre, liquido amniotico indio. Ricordando che il termine nazione, propriamente, è connesso a quello di nascita.

Può darsi che Cuarón abbia voluto muovere solo il primo passo in direzione di un altro grande regista narratore di epopee familiari, il tedesco Edgar Reitz,  con la lunga serie di film raccolti sotto il celebre titolo di Heimat. Gli elementi e gli sviluppi narrativi  ci sarebbero davvero tutti per una Heimat messicana. E anche l’ultima inquadratura lo lascia sperare. Cleo sale una lunga scala di ferro che porta sul terrazzo della casa. Quando esce dall’inquadratura, passa un aereo e cominciano a scorrere i titoli di coda. È la stessa immagine della prima inquadratura, con la sequenza dell’acqua sul pavimento. Ora però l’apertura di cielo non è vista attraverso un riflesso sulle mattonelle, ma direttamente, con un’inquadratura dal basso verso l’alto. E Cleo dal basso si è elevata come persona e personaggio verso quella luce.

di Riccardo Tavani

 

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