C’era una volta un bambino

Patrizia Vindigni Vice Direttore

C’era una volta, in un villaggio in Tanzania, un bambino di nove anni. Un sorriso che riscaldava il cuore, un viso magro, con degli occhi neri e profondi, che era un piacere incrociare. Era vivace, un poco monello, faceva tutto velocemente. Sembrava volare su quelle gambe magre, che promettevano una bell’altezza. Se c’era da fare un lavoretto per aiutare la sua famiglia il piccino non esitava. Lui era sempre pronto a dare una mano. Lo annoiava solo l’immobilità.
Un giorno, un brutto giorno, mentre giocava vicino la sua scuola a Makifu, inseguendo chissà quali fantasie e sorrisi nel suo divertimento di bimbo, si ritrovò a salire su un albero. Un braccio, poi l’altro, le gambe, prima una, poi l’altra e poi … la presa mancata o forse una distrazione, cadde giù, con il suo piccolo peso e non bastò la sua agilità ad impedirgli di arrivare per terra, sbattendo la schiena. Spezzandosi come un ramoscello.
Da quel giorno le sue gambe smisero di muoversi, gli impulsi dal cervello partivano ma non riuscivano ad arrivare oltre quel punto che si era incrinato nella caduta.
F. rimase fermo da quel giorno, letteralmente fermo, in un fondo di letto. La mamma, con il suo amore e pensando di fare bene, si rivolse ad uno stregone che cercò di guarirlo con rimedi fantasiosi ma sicuramente inutili. La frattura era troppo grave. Una suora dopo aver saputo dalla mamma delle sue condizioni lo portò presso una guardia medica.
Le ore che si susseguivano nell’arco della giornata, toglievano al suo cuore e alla sua anima la voglia di sorridere. Si spegneva un fuoco e subentrava un buio pesto che invadeva la piccola stanza, colma di dolore e poca voglia di vivere. Era come se gli occhi scuri non riuscissero più a percepire l’esistenza della luce. Il piccolo corpo, con la sua pelle scura, magro e prosciugato dalla malattia, sembrava volersi rannicchiare in un abbandono donato alla morte.
Un giorno dalla porta entrarono nella stanza due uomini dalla pelle chiara, pochi capelli in due, un sorriso accogliente e forse qualche esitazione, non manifesta, di fronte alla sofferenza. I cuori affettuosi non si abituano facilmente all’incontro con il dolore.
Quel giorno nacque un’amicizia con il bambino.
I due uomini, un sacerdote e un suo amico, vedendo le difficili condizioni in cui si trovava il piccolo, lo presero immediatamente tra le braccia e lo portarono avvolto in un telo colorato in un ospedale per cure ed accertamenti.
L’affetto riuscì a fare un grande miracolo. L’amico dalla pelle chiara curò per prime le ferite del corpo, le piaghe sui gomiti, sulla schiena, ma nel farlo si prese anche cura dell’anima, riuscendo a restituire, giorno dopo giorno, con l’aiuto di altri cuori, il sorriso al bambino.
Nessuno potrà ridargli la forza delle gambe. La sentenza di immobilità è definitiva, ma gli occhi da quell’incontro sono tornati a splendere. Il bambino ha adesso una sedia a rotelle su cui spostarsi, un clarinetto da suonare,  un cellulare con cui ascolta solo musica che gli riempie di note giocose le giornate, ma soprattutto ha recuperato il senso dell’utilità, dell’affetto, della gioia di vivere.
E’ una storia di vera amicizia, una storia nata in Tanzania.

 di Patrizia Vindigni

Print Friendly, PDF & Email