Brexit. Il Regno Unito era euroscettico da prima del referendum

BarbaraIl voto ha ufficializzato le intenzioni dei paesi anglosassoni, ma la loro esclusività rispetto all’Unione Europea era precedente

È Londra il baluardo di un europeismo che, all’indomani del Brexit, il Regno Unito potrebbe salutare a gran voce. Dentro o fuori l’Unione Europea? Per saperlo bisognerà attendere due anni, nell’arco dei quali l’esito del referendum dovrà incontrare l’approvazione del Parlamento inglese e del Consiglio europeo. Mentre prende piede l’idea di una “Repubblica europea”, sorge quindi l’interrogativo: quanto si sono realmente integrati i paesi anglosassoni nell’Unione Europea e, conseguentemente, quanto ne rimpiangeranno l’appartenenza? Se è vero infatti che Londra si sia ancorata al remain con un 60%, su un totale inglese del 53,40% (dati: Limes), è pur vero che a pesare sul Brexit siano stati il Galles e l’Inghilterra, ovvero i sostenitori del leave. E non sarebbe nemmeno la prima volta che il Regno Unito ponga in discussione la sua appartenenza all’Unione Europea: nel 1975, tre anni dopo l’entrata nella Comunità europea, la Gran Bretagna organizzò un referendum sulla Cee e il 67,2% degli elettori aveva scelto di rimanervi. Su insistenza del politico Ukip Nigel Farage, Cameron non ha potuto che accontentare il desiderio dei nazionalisti e conservatori di un nuovo referendum, elettori che aldilà di età ed estrazione sociale, hanno percepito il bisogno di ufficializzare una condizione geopolitica euroscettica. Il fulcro della questione non riguarda tanto se una decisione così importante debba essere affidata o meno ai cittadini. Piuttosto, il separatismo verso cui si dirigono gli anglosassoni è comprensibile se ci si concentra sul fatto che la Gran Bretagna è già ai margini di un’Unione Europea in cui non si rispecchia, con cui spesso entrava in disaccordo su tante altre questioni comunitarie. Senza dimenticare, poi, che la Gran Bretagna è già coinvolta ed integrata in un’alleanza che più si confa al suo universo valoriale, più congeniale alle sue politiche d’intervento rispetto a quelle intraprese dall’Unione Europea. Quale membro dei “Five eyes”, i suoi interessi convergono con paesi come Stati Uniti, Canada, Australia e Nuova Zelanda, con cui la Gran Bretagna condivide cultura, lingua e valori. In quest’ottica, è comprensibile voler rinforzare il proprio legame con l’anglosfera, piuttosto che con un’Unione Europea con cui si scontra quotidianamente sulla giurisdizione della Corte di giustizia, sui contributi comunitari da versare o sul trattato di Schengen. Ed ecco allora che, all’indomani del Brexit, il senso di non appartenenza del Regno Unito all’Unione Europea trova una spiegazione che esula dalla disinformazione dei propri elettori. I “Five eyes” sono appunto i cinque stati che si propongono di mantenere una forte entità anglosassone nel mondo, intesa come bagaglio culturale, linguistico e valoriale condiviso da Regno Unito, Stati Uniti, Canada, Australia e Nuova Zelanda. L’esistenza di quest’asse, se così si può definire, è emerso nel 2013 grazie ad Edward Snowden, coinvolgendo cinque referenti anglofoni che si sono autodecretati nel controllo dei dati globali, spesso violando le norme del web control. Mentre Scozia, Irlanda del Nord e Londra hanno decretato il proprio “no” al Brexit, tocca quindi al Parlamento Inglese e al Consiglio europeo decretare ora l’efficacia del voto. Le conseguenze sono ancora imprevedibili sotto molti punti di vista, in primis nel mercato finanziario, i cui effetti si redistribuirebbero in tutta Europa. Soprattutto in Francia: Francois Hollande ha infatti recentemente dichiarato che qualora il Regno Unito ufficializzasse la sua uscita dall’Unione Europea, tutte le camere di compensazione francesi con base a Londra sarebbero reindirizzate in Francia per poter continuare ad operare su territorio europeo. Perciò, prima di imbracciare l’articolo 50 del trattato sull’Unione Europea, riguardante il meccanismo di recesso volontario e unilaterale di un paese dall’Unione Europea, il Regno Unito dovrà attentamente valutare i passi falsi che potrebbero, poi, portarlo a rimpiangere la via dell’europeismo.

di Barbara Polidori
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