Lati oscuri e positivi di un’importante medaglia
L’immigrazione è uno degli argomenti più importanti e maggiormente dibattuti degli ultimi anni: è il tema centrale all’interno della Comunità Europea, predomina nelle politiche nazionali dei singoli paesi ed è un comun denominatore tra gli stati di tutto il mondo.
In virtù del peso che questo fenomeno riveste, i politicanti si guardano bene dall’analizzarlo nella sua complessità: tutto si limita a populismi, demagogia, naufragi e sbarchi. Sebbene quest’ultimi siano eventi drammatici, c’è dell’altro che nessuno intende rivelare: a tal proposito, invito i lettori ad un ricerca preliminare in rete dei termini “Al Warda”, “Chocha”, “El Ouardia”. Personalmente, non ho trovato nulla in merito a quello che sto per raccontarvi.
Trattasi di centri detentivi in Tunisia: Al Warda è un polo specifico per stranieri, Chocha ricopriva lo stesso ruolo ma è stato “chiuso” nel 2013, secondo quanto dichiarato dall’UNHCR (Alto Commissariato Rifugiati Nazioni Unite), ed infine El Ouardia è un quartiere della periferia sud della capitale, Tunisi. Delle coraggiose freelance italiane sono riuscite a mettersi in contatto con alcuni detenuti.
I reclusi denunciano l’assenza totale di contatti con il mondo esterno, un sovraffollamento delle celle, scarse condizioni igieniche e cibo insufficiente. Parliamo di complessi in grado di coinvolgere centinaia di persone, con un solo medico a disposizione per tutti. Si vive sotto ferreo controllo dei poliziotti e senza alcuna assistenza legale-giuridica.
Ci sono molti rifugiati siriani, persone deportate dal Chocha, stranieri in terra tunisina o tunisini stessi presi in piazza o per le vie della città. E’ sufficiente rientrare nella categoria di “rifugiato” per finire dentro: i documenti dell’UNHCR, che dovrebbero al contrario tutelare queste persone, non hanno alcun valore, così ogni giovedì e domenica arrivano nuovi vagoni di individui.
Trattandosi di rifugiati e non di criminali, le persone coinvolte sono in grado di venir fuori da questa deprecabile situazione: basta avere i soldi del biglietto di rimpatrio, per qualsiasi servizio all’interno della prigione e per il rinnovo del visto, che per i rifugiati siriani è in dollari con una maggiorazione (300$).
Per tutti gli altri c’è la deportazione.
Di notte, massimo alle prime luci dell’alba, i prigionieri sono condotti nella città di Kasserine (Tunisia) o nelle vicinanze del monte Chambi, in zona desertica, dove vengono abbandonati con dell’acqua ed una baguette a testa, alla mercé della vita in uno stato di guerra. Inoltre sul Chambi, a complicare la situazione, sta andando in onda la guerra tra salafiti e polizia.
Impossibile calcolare gli uomini che muoiono di stenti o perché rimasti coinvolti in un conflitto armato: non si può perché chi si ferma è perduto in un deserto e allora tirano dritto, nella speranza di salvarsi almeno loro.
Se questo è quanto previsto per un carcerato in Tunisia, in Algeria l’iter non è diverso: risiedono in carcere per un massimo di 6 mesi, hanno le stesse modalità di rimpatrio o altrimenti vengono deportati. Solo che questa volta il deserto è quello al confine con il Niger.
Tutto questo è frutto di un tentativo di esternalizzazione delle frontiere europee, che prevederebbe l’apertura di campi di accoglienza, finanziati dall’UE, in Tunisia, paese che dovrebbe anche impegnarsi in operazioni di Search and Rescue degli immigrati libici: purtroppo a dominare, è solo l’odore stantio dello “scarica barile”.
L’UNHCR e l’O.I.M (Organizzazione Internazionale Migrazioni) non risultano, secondo quanto affermato dagli intervistati anonimi, di grande sostegno.
Turchia e Algeria non sembrano ancora intenzionate a stipulare un accordo sulle deportazioni.
Come se non bastasse, i fortunati che riescono ad uscirne vivi, sono gli stessi che intraprendono un disperato viaggio dalla Libia verso l’Italia, in assoluto la tratta più pericolosa: 250 detenuti del Chocha sono morti in un naufragio, mentre un rifugiato eritreo racconta di essere stato salvato dalla Garde Nationale, dopo 7 giorni in mare. Erano 94 persone sull’imbarcazione: dopo pochi giorni dal salvataggio, 60 uomini e donne sono stati riportati indietro, al carcere di El Ouardia, altri in quello di Medenine (entrambi in Tunisia).
Noi parliamo di “ping pong” costituzionale, mentre qui si gioca un tira e molla umanitario.
Mai come quest’anno sono morte tante persone nel tentativo di raggiungere le nostre coste: 3.800 vite umane, secondo le Nazioni Unite. Gli ultimi due naufragi sono avvenuti al largo della Libia, il 3 novembre, con 239 vittime. Un tragico record.
Mentre nessuno parla di campi di detenzione e ci vogliono mostrare solo la parte cruenta che non possono nascondere, c’è anche chi, tra il coro, alza una voce diversa: interessante in tal senso la teoria di Natalie Nougayrède, corrispondente francese. La giornalista sottolinea, in assenza ancora di stime relative al 2016, come la “crisi dei profughi del 2015” abbia condotto nel nostro continente 1,3 milioni di persone, pari allo 0,2% delle popolazione UE: “un numero che si poteva gestire” (Guardian). Quella del 2015, secondo la Nougayrède, è una crisi che ha riguardato le istituzioni europee, che “non sono state all’altezza della situazione”: sono i migranti, dopo un infinito calvario, a dover affrontare la crisi dell’Europa.
Infine, c’è addirittura chi si alza in piedi per ringraziare gli extracomunitari in Europa, in quanto lavoratori determinanti per la crescita economica di alcuni paesi: a farlo è Le Monde che, in maniera ancora più meritevole, non scrive del proprio paese, ma ci parla della Svezia, isola felice dell’immigrazione. Coloro che hanno trovato una stabilità nel paese scandinavo hanno contribuito a far crescere il PIL del 4,1% e a far diminuire la disoccupazione dello 0,3%. Sebbene non siano stati il solo fattore di crescita, queste persone hanno fatto la loro consistente parte.
Nonostante tutto questo, nell’anno del giubileo straordinario, quando la tragedia ha raggiunto il suo picco più alto in termini di vite perse, nessuno si è preoccupato di dar voce al “giubileo degli immigrati”: l’ennesimo modo che hanno avuto i civili occidentali di dimostrare un’integrazione di serie B. In pochissimi sono a conoscenza di questa “manifestazione nella manifestazione” ed è avvilente e disarmante, tanto quanto un naufragio, veder sfilare qualcuno con un cartellone: “Scusate se non siamo annegati”.
di Irene Tinero