Storia di J. e delle altre vittime di infibulazione

La storia di J. fa riflettere perché è nata a Genova e le sue origini somale, i suoi parenti, le nonne, le cugine lontane non le aveva mai conosciute.

Quella che doveva essere una vacanza, nel villaggio in cui sono nati i propri genitori, nel luogo in cui c’è la sua famiglia, diventa un incubo di un mondo mai conosciuto prima in cui essere donne è una colpa grave.

J. aveva solo 10 anni, nata a Genova nel 2000. E tutto si sarebbe aspettata meno d’essere chiusa in una stanza, immobilizzata su un tavolo a gambe aperte e sfregiata barbaramente. Coltelli e bisturi, erano in 4 altre donne a toglierle per sempre la sua femminilità: le urla non le ha sentite nessuno, o forse sì, ma la mamma era di là e non ha fatto niente per impedire quello scempio.

Ciò che è accaduto dopo, al ritorno in Italia, ha segnato J. per sempre. Perché da bambina un male così immenso diventa una vergogna: in bagno, a scuola, J. rimaneva anche mezz’ora per fare la pipì.

Una tortura indescrivibile.

E il dolore, mescolato al non sentirsi più se stessa, all’ansia, allo choc, diventa violenza, isolamento, diversità.

I professori e le amiche non la riconoscono più, l’anno dopo, alle medie, quando arrivano anche le mestruazioni, è anche peggio. J. deve lottare giorno e notte con spasmi addominali, nausea, vomito, la sensazione di venir meno. E si abitua: beve pochissimo per non dover andare in bagno, prende medicine di nascosto, quando proprio non ce la fa inventa malanni e influenze.

Solo un mondo resta umano per J. Quello dei libri.

La ragazza studia, studia soprattutto le lingue e il tedesco che le piace tanto, si diploma con 100 e lode, manda tanti curricula, riceve un’offerta di lavoro a Roma e il destino, finalmente, le sorride. Perché il padre perde il lavoro, la possibilità che lei possa aiutare la famiglia è preziosa e allora la stessa madre che l’ha tradita ora acconsente a mandarla nella Capitale, dove J. ha una zia che può ospitarla.

Ed è a Roma che la vita le cambia per sempre, perché quella zia è una donna diversa, ha sposato un medico italiano, è lontanissima dalla cultura somala e conosce bene la barbarie dell’infibulazione. Finalmente J. con lei parla, le racconta la sua storia, scopre per la prima volta che può essere curata, che può tornare ad avere una vita normale. E inizia il suo lento percorso di ricostruzione che passa da numerosi interventi di chirurgia plastica, sedute dallo psicologo, infine l’incontro con un ragazzo che la ama e la rispetta, conoscendo ciò che ha passato e subito.

Oggi vorrebbe sposarla e avere anche un figlio da lei, cosa che J. pensava di non poter avere mai.

Dei 200 milioni di donne e ragazze che nel mondo hanno subito mutilazioni genitali come J., nel nostro Paese ne vivono 88mila: pensate a una città come Lucca o Alessandria, piena zeppa di dolore e disperazione.

Una violenza quasi dimenticata, da noi, forse perché le vittime sono nella quasi totalità dei casi di origine straniere, anche se nate e cresciute in Italia.

Come se contassero meno, o niente.

L’obiettivo di chi le accoglie e ne segue i percorsi – da Amref ad Aidos a tante altre grandi o piccole realtà del Terzo settore – è informarle sui percorsi che oggi esistono per permettere loro di tornare a una vita normale. Sono quelli tracciati dalla chirurgia plastica, in primis, che nel corso degli anni ha affinato tecniche ricostruttive e interventi di ricostruzione e riempimento in grado di riportare gli organi genitali alle loro condizione originaria.

Su cui tuttavia manca informazione.

Di qui la scelta della Sicpre, la Società italiana che raggruppa l’85% dei chirurghi plastici ed estetici operanti nel nostro Paese, di inventarsi un Summit itinerante per sensibilizzare l’opinione pubblica e le istituzioni sul tema, che oggi, 6 febbraio – in occasione della Giornata mondiale della tolleranza zero contro il fenomeno – fa la sua tappa in Senato.

«La prima sfida che la chirurgia plastica si trova ad affrontare nel trattamento delle mutilazioni genitali femminili – spiega Stefania De Fazio, presidente eletta di Sicpre, che ha conosciuto J. e operato personalmente e che ha ideato il Summit nel 2019 – sono le cicatrici e la necessità di rimodellare i tessuti rimasti. I progressi della medicina e della chirurgia rigenerativa ci hanno dato straordinari strumenti con cui affrontare la sfida di questa ricostruzione». Oggi l’autotrapianto del grasso della paziente, con il lipofilling, permette di ridare elasticità, turgore e volume. E a questa tecnica si affianca la trasposizione di lembi, ricostruendo così i tessuti asportati e modificati con queste pratiche e restituendo alla donna le condizioni per svolgere una vita normale.

Un insieme di possibilità che non esisteva quasi 20 anni fa, quando è stata promulgata la legge n.7/2006, nota anche come legge Bonino.

«Uno degli intenti del Summit – spiega ancora De Fazio – è porre all’attenzione delle istituzioni la necessità di una revisione della legge che disciplina il tema e che non contempla, all’interno del team multidisciplinare previsto per la cura delle vittime di mutilazione, il chirurgo plastico».

Fondamentale è informare le donne, che spesso si chiudono nel proprio dolore e nell’incapacità di parlare di ciò che è loro accaduto. Occorre rendere tutto questo trasparente e che le informazioni sui progressi della chirurgia siano fruibili a tutte le donne interessate e non solo, affinché si crei una rete di conoscenza, una sorta di passaparola che potrà forse salvare un numero crescente di donne barbaramente sfregiate.

Stefania Lastoria 

 

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