Una donna che dice no alla maternità ancora oggi non viene accolta e sostenuta

Il giorno di Pasqua, una donna ha posto un neonato nella Culla per la Vita del Policlinico di Milano insieme ad una lettera struggente e piena d’amore, in cui si intuisce che il suo gesto è quello di una mamma in difficoltà, che decide consapevolmente e con dolore di dover lasciare il figlio, con la speranza di potergli donare una vita migliore di quella che lei potrà mai offrirgli.

Questa scelta è diventata pubblica ed è stata investita da una pioggia di giudizi, appelli ad un ripensamento, dichiarazioni di sensi di colpa in un vortice di incontinenza collettiva e di reazioni di pancia prive di rispetto, empatia, delicatezza per una scelta intima che avrebbe dovuto essere protetta dal silenzio, garantendo in modo assoluto la privacy.

Ma in questa storia di protetto non c’è stato nulla, neanche il buon senso.

Sui quotidiani sono stati riportati dettagli che potrebbero rendere addirittura riconoscibile la donna e quell’anonimato al quale aveva diritto rischia di cadere sotto i colpi del tam tam mediatico a cui è seguito quello sui social con gli sproloqui e i commenti impietosi e giudicanti. Se non sarà riconosciuta, riconoscerà la sua storia e ciò che leggerà nelle parole spese per raccontarla sarà solo un’altra ferita inferta da chi, di lei, pur non sapendo nulla si permette impietosamente di giudicarla.

Un noto presentatore Ezio Greggio ha rivolto un appello invitando ad un ripensamento, ad andare a riprendersi il figlio perché non l’avrebbero lasciata sola e sarebbe stata aiutata economicamente da tanti, perché quel bambino aveva bisogno della sua “vera” mamma e non di una mamma che dovrebbe “solo occuparsene”.

Esternazioni che hanno scatenato altre polemiche per chi ha letto in quelle frasi la convinzione che i bambini adottati in realtà si accontentano di un amore di serie B.

Insomma, stiamo attenti alle parole perché si può fare molto male in nome di un presunto “bene”.

Quando persino il direttore del reparto di Neonatologia si è lasciato andare a dichiarazioni sopra le righe dicendo che tutto questo rappresentava “una sconfitta per tutti”, di una “scelta inaccettabile per la ricca Milano”, allora forse dobbiamo fare un passo indietro e tacere.

Chiederci piuttosto se questa donna sia stata rispettata o se invece le è stata negata quella riservatezza che era doveroso garantirle, se sia stato corretto giudicare la sua scelta “inaccettabile” solo perché nella cattolica Italia infrange la retorica sulla maternità e l’aspettativa che ogni donna desideri accogliere un figlio mentre, se non lo fa, allora ci troviamo davanti ad un gesto immorale e contro natura.

Ma chi, chi tra tutti noi, e tra tutti “loro” si può arrogare il diritto di esprimere un giudizio? Perché questo pone automaticamente i “giudicanti” su un piedistallo, in un livello di supremazia che non possono avere.

Ed ecco quindi che le pressioni sociali e le aspettative sulla maternità possono essere pervasive fino alla violenza, sia quella fatta di giudizi scagliati sulle donne che abortiscono e che rischiano di vedere il loro nome inciso su croci di legno nei Cimiteri degli Angeli, che quell’altra forma di violenza più subdola ma non meno grave, che si confonde con la commiserazione o il compatimento, quella che stigmatizza come “sconfitta” la scelta di una donna di lasciare in adozione il figlio appena nato affidandolo ad altre famiglie, ad altre cure, ad altri mani che sapranno dare amore ai loro figli.

Ricordiamoci che c’è una legge in Italia che consente alle donne di partorire in anonimato e di lasciare il neonato nelle strutture ospedaliere dove è nato: è l’articolo 30 del Dpo 396/2000.

Grazie a questa legge, una donna che non voglia tenere il figlio può recarsi in ospedale, partorire con l’assistenza medica e lasciare in sicurezza il bambino chiedendo di non essere nominata. In questo caso, il bambino all’atto di nascita, viene registrato come “nato da donna che non consente di essere nominata”. E’ una legge poco conosciuta e della quale le donne dovrebbero essere informate.

Da diversi anni, per evitare che i neonati siano abbandonati subito dopo il parto per strada, o nei bagni pubblici o nei cassonetti, rischiando di morire di freddo o fame o incuria, alcuni ospedali italiani hanno messo a disposizione le Culle per la Vita, una sorta di versione moderna della Ruota degli Esposti, che permette di affidare il neonato alle cure altrui, mantenendo l’anonimato. In Italia se ne contano una cinquantina, quello del Policlinico è stato istituito nel 2007 e questa è solo la terza volta che è stato adoperato.

Un’opzione che può evitare il peggio, ovvero la morte dei neonati ma che ci deve interrogare su come ancora oggi per una donna sia quasi difficile essere accolta e sostenuta quando sceglie di dire no alla maternità.

E come sia così facile nella loro superficialità, sentire la gente emettere sentenze senza via di scampo.

Ci vorrebbe forse una Culla per l’Umanità, quella che manca, quella che da troppo tempo abbiamo perso per strada e che sembra nessuno abbia intenzione di recuperare.

Stefania Lastoria

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